Proporre giochi da tavolo in ambito scolastico è una sfida impegnativa. I dilemmi che possono avere i docenti sono parecchi. Uno è sicuramente quello se è meglio proporre giochi cooperativi o competitivi o entrambe le tipologie.
Cosa ci dicono le meta-analisi in merito all’apprendimento cooperativo vs. apprendimento competitivo?
John Hattie ha riassunto gli esiti delle ricerche accademiche svolte in ambito educativo facendo presente vari aspetti, tra cui quanto segue:
L’apprendimento cooperativo è più performante dell’apprendimento competitivo. Questo concretamente significa che per i docenti è consigliabile creare un clima di classe cooperativo, piuttosto che competitivo, e quindi di conseguenza proporre giochi cooperativi.
Perché mai le cose stanno così? Qual è il problema di fondo dell’approccio competitivo?
“La competizione stimola una convinzione entitaria [fissa, stabile nel tempo, ndr], obiettivi di prestazione [al posto di obiettivi di padronanza, ndr], l’attribuzione del fallimento alla mancanza di capacità [al posto dell’eventuale mancanza di impegno o di strategie da rivedere, ndr] e un generale abbassamento delle diverse percezioni di abilità (autoefficacia, senso del valore di sé). Tutti questi aspetti forniscono la base per un calo della motivazione ad apprendere, sostengono il desiderio di non impegnarsi e quindi un approccio alla comprensione e allo studio meno efficace. Inoltre, fanno aumentare il timore di fallire (in una situazione competitiva solo alcuni vincono) e l’ansia da prestazione. Neppure i ‘vincitori’ sono motivati per le giuste ragioni, cioè non imparano per il gusto di imparare, continuano a dubitare delle proprie abilità, possono impegnarsi in modo eccessivo e spasmodico oppure ritirare l’impegno seguendo una logica del ‘massimo risultato con il minimo sforzo’. Se la logica competitiva è difficile da sradicare, è possibile pensare a una competizione con se stessi che, pur non essendo la stessa cosa di una vera cooperazione nei processi d’apprendimento, ha come obiettivo il miglioramento rispetto alle proprie prestazioni precedenti (e quindi l’apprendimento) piuttosto che il superare gli altri o standard esterni. La situazione ideale sarebbe quella di un clima cooperativo in cui vi è il reciproco aiuto fra studenti più o meno bravi e all’interno del quale le prestazioni del singolo vengono valutate come progressi o nuove acquisizioni rispetto a momenti precedenti“.
(Moè, p. 165)
Una delle criticità più importanti dell’approccio competitivo, è quindi il fatto che favorisce una convinzione entitaria/fissa che bene non fa ai bambini. Ma quali sono le alternative?
Mentalità fissa vs. mentalità di crescita (Carol Dweck)
Chi ha una mentalità fissa, pensa di dover dimostrare il suo livello e tende a temere il nuovo e anche il cambiamento, vive negativamente il successo. Attribuisce gli insuccessi alla convinzione di non essere capace, a mancare d’abilità, ha una scarsa persistenza e prova facilmente emozioni spiacevoli come ansia, rabbia o noia. Chi ha una mentalità di crescita, invece, crede di poter migliorare, di avere margine di crescita, è alla ricerca di situazioni nuove e sfidanti, diverse, da padroneggiare, così da potersi sentire soddisfatto. L’eventualità di sbagliare non spaventa, anzi può suggerire modalità per ritentare, sostenute da attese di miglioramento.
Le aspettative e le convinzioni che hanno gli studenti su se stessi sono il fattore più importante in assoluto per garantire un apprendimento efficace (Hattie, p. 266).
Applicato al mondo dei giochi da tavolo, ciò significa concretamente quanto segue: svolgere giochi cooperativi, aiuta a creare un clima di sostegno tra gli allievi e una mentalità di crescita, fondamentale per la riuscita. Si prova tutti assieme a migliorare per ottenere risultati migliori: uno incoraggia l’altro. Quando si fallisce, lo si fa assieme, ma il desiderio di padronanza spinge a tentare di nuovo, cercando nuove strategie più efficaci.
Quando invece si gioca a titoli competitivi, il rischio di vedere sempre i soliti giocatori perdere è più che concreto, i commenti dei compagni vincenti potrebbero non sempre essere lusinghieri, le convinzioni che uno ha di se stesso potrebbero vacillare e uno potrebbe iniziare a pensare di non avere le capacità di migliorare, di non essere bravo e di non poter fare nulla per cambiare.
Il punto è che, come abbiamo visto, credere di riuscire, pensare di poter migliorare e padroneggiare i compiti, sono aspetti fondamentali in tenera età. Solo in questo modo si può sperare di vedere uno sviluppo adeguato.
“Il supporto conta, come anche il mancato sostegno. L’esito ottimale vede adulti (o altre persone significative) che favoriscono e non ostacolano il ‘provarci’ e la spinta a ‘fare da soli’. Dal sostegno reiterato nel tempo nasce la tendenza a sentirsi attratti dai compiti in cui esercitare la padronanza in modo piuttosto stabile, anche e soprattutto in assenza di altri che sostengono o frenano i tentativi di padronanza. Si sente competente chi fa.“
(Moè, pp. 53-54)
Un altro aspetto importante da tenere in considerazione è il diritto di sbagliare. Percepire l’errore come qualcosa da evitare o di cui vergognarsi, non giova a nessuno.
Il diritto di sbagliare
“Vi è un diritto all’errore e all’insuccesso che va riconosciuto e valorizzato. A scuola, chi fa tutto giusto significa che ‘sapeva già’ e quindi non ha imparato. Diversamente, chi sbaglia e poi rimedia, capisce cos’era da fare, finalizza l’obiettivo che è apprendere cose nuove, che ancora non si sapevano. Fra queste, imparare a sbagliare e a riprendere in mano il problema per giungere a una possibile soluzione è un esercizio importante e addirittura imprescindibile per rafforzare la percezione di competenza ovvero di essere ‘padroni della situazione’.
Far sentire competenti, sostenendo i tentativi anche non sempre completamente riusciti e stando in una posizione di supporto e non di sostituzione non farà che incrementare il benessere.
Conta molto anche il sostegno di natura emotiva.“
(Moè, p. 54)
Non far pesare la vittoria e la sconfitta
Nel Piano di studio della scuola dell’obbligo ticinese del 2015, nella materia che più di ogni altra dà peso e importanza al gioco come momento di crescita dell’individuo, si fa presente un aspetto molto importante: il docente non deve dare importanza alla memoria di vittoria e sconfitta nei momenti di gioco competitivo, soprattutto quando si lavora con bambini sotto gli 8 anni, ma anche fino ai 10 anni.
Se da un lato si dà per scontato che il docente sia consapevole degli effetti negativi che può avere il gioco competitivo portato agli estremi, una simile consapevolezza tra i bambini è sicuramente meno presente. Ciò significa concretamente che adottare giochi cooperativi risulta più semplice da gestire per l’educatore, il quale non può essere presente ovunque durante le attività e al di fuori del contesto scolastico quando i bambini continuano magari a parlare di quanto accaduto.
Passiamo ora ad analizzare alcune delle criticità dell’approccio cooperativo, perché credere che cooperare sia facile è un errore.
Le criticità dell’approccio cooperativo
Roberto Trinchero, ricercatore che con il suo modello RIZA ha influenzato profondamente il Piano di studio della scuola dell’obbligo ticinese, parla di vari risultati di ricerca utili per progettare attività didattiche efficaci. Quando affronta la questione dell’apprendimento cooperativo, afferma le seguenti cose:
“I lavori di gruppo sono efficaci, ma solo se il gruppo è piccolissimo (coppia o gruppo di tre) e i ruoli all’interno del gruppo sono strutturati (ognuno ha il proprio compito e le proprie responsabilità). Questo risultato invita a utilizzare in classe vere e proprie strategie di apprendimento cooperativo e non generici lavori di gruppo. Indicazioni operative: far lavorare in coppia gli alunni, strutturare i ruoli all’interno della coppia (ad esempio, il relatore e l’ideatore), usare tecniche di apprendimento cooperativo (ad esempio il Jigsaw, il peer tutoring, il reciprocal teaching, il peer explaining).“
(Trinchero, p. 49)
Decidere dunque di proporre giochi da tavolo formando grandi gruppi, può non essere per forza di cose il modo migliore per iniziare l’esperienza ludica (potrebbe eventualmente essere un obiettivo a cui tendere nel tempo dopo aver consolidato determinate competenze trasversali).
Il motivo per cui lavorare a coppie è più semplice ed efficace rispetto a lavorare a gruppi grandi è presto detto: all’aumentare del numero di individui, aumenta anche in modo esponenziale il numero di interazioni tra gli individui presenti. Questo richiede delle competenze sociali sempre più importanti e rende più difficile indentificare le eventuali difficoltà sorte.
Quindi, riassumendo: lavorare a coppie è più semplice ed efficace che lavorare a grandi gruppi.
Passiamo ora a un’altra criticità dell’apprendimento cooperativo: la formazione dei gruppi. La formazione dei gruppi è un aspetto spesso sottovalutato, ma che può creare problematicità non indifferenti. Si può optare per gruppi omogenei oppure eterogenei. Secondo la ricerca, tuttavia, creare gruppi eterogenei permette di ottenere risultati migliori in termini di apprendimento.
“In genere, i gruppi eterogenei presentano una serie di vantaggi.
I gruppi composti da studenti con background, capacità e interessi diversi espongono gli studenti a molteplici prospettive e metodi di risoluzione dei problemi e generano un maggiore squilibrio cognitivo (necessario per stimolare lo sviluppo intellettivo e l’apprendimento degli studenti). Nei gruppi eterogenei tendono ad esserci una maggiore riflessione ed elaborazione, un più fitto scambio di spiegazioni e una maggiore apertura prospettica nella discussione del materiale, tutti fattori che favoriscono una comprensione più approfondita, la qualità del ragionamento e l’accuratezza della ritenzione mnemonica a lungo termine.
Quando gli studenti selezionano da sé i loro gruppi, di solito formano gruppi omogenei.“
(Johnson, Johnson & Hobulec, pp. 43-44)
“La procedura meno raccomandata è quella di lasciare che gli studenti formino da soli i gruppi. Si riscontra spesso un impegno minore da parte degli studenti [adottando questa strategia, ndr]. Una soluzione è far compilare agli studenti delle liste [segrete, ndr] di compagni con i quali desidererebbero lavorare e poi metterli in un gruppo di apprendimento con una persona di loro scelta e uno o più studenti selezionati dall’insegnante.“
(Johnson, Johnson & Hobulec, p. 47)
Se i sostenitori dell’apprendimento cooperativo non evitano di evidenziare alcune delle criticità di un simile approccio, Susan Cain va oltre e mette in evidenza criticità che in molti ignorano.
Il punto di vista di Susan Cain: e chi è introverso, come fa?
Tra le criticità dell’approccio cooperativo, è giusto prendere in considerazione anche quanto segue: le classi sono composte da bambini sia estroversi che introversi, di norma in pari misura.
Cain nel suo libro Quiet critica piuttosto fortemente l’ideale dell’estroversione che viene imposto nella nostra società, persino in ambito scolastico. Ciò che spesso ci dimentichiamo è quanto segue:
“Gli introversi ricaricano le batterie stando da soli, gli estroversi hanno bisogno di ricaricarsi se non socializzano abbastanza.”
(Cain, p. 23)
È giusto quindi penalizzare chi è introverso e spingere tutti ad essere estroversi?
Il capitolo tre “Quando la collaborazione soffoca la creatività. La forza del lavoro in solitudine” del bestseller di Susan Cain è uno dei capitoli più interessanti che abbia letto negli ultimi 10 anni.
Cain porta esempi di persone straordinarie che hanno necessitato del lavoro in solitudine per poter eccellere (Albert Einstein e Stephen Wozniak), e dimostra come gli open space riducono la produttività e danneggiano la memoria, rendono le persone più esposte alle malattie, ostili, scarsamente motivate e insicure. Chi lavora in open space deve spesso subire rumori fastidiosi, il che aumenta la frequenza cardiaca e lo stress. Un eccesso di stimoli sembra inoltre ostacolare l’apprendimento. Cain fa in seguito presente come il brainstorming di gruppo non funziona in modo ottimale per più motivi: il social loafing (all’interno di un gruppo, un individuo può essere indotto a poltrire lasciando che siano gli altri a sobbarcarsi l’onere del lavoro), il blocco di produzione (solo una persona alla volta può parlare o produrre un’idea, mentre gli altri membri del gruppo sono costretti all’inattività), l’apprensione per la valutazione (la paura di fare brutte figure agli occhi dei pari, il timore insomma dell’umiliazione pubblica), il condizionamento da parte del gruppo (all’interno di un gruppo si nota la tendenza a uniformarsi, la pressione del gruppo è in grado di alterare il punto di vista degli individui).
“Soggetti motivati e di talento è meglio incoraggiarli a lavorare da soli, se le priorità sono efficienza o creatività“.
(Adrian Furnham)
“Sono un cavallo fatto per tirare da solo, non mi sento tagliato per lavorare in tandem o in gruppo, perché so benissimo che per raggiungere un determinato obiettivo è fondamentale che sia la stessa persona a pensare e a decidere.“
(Albert Einstein)
“La maggior parte degli inventori e degli ingegneri che ho conosciuto mi assomigliano: sono timidi e vivono nella loro testa. Sembrano quasi artisti. Anzi, i migliori sono artisti. E gli artisti danno il meglio di sé quando sono soli, quando possono controllare il progetto di un’invenzione senza avere tra i piedi qualcuno che provi ad adattarlo per le esigenze del marketing o di chissà quale altro ufficio. Sono convinto che nulla di realmente rivoluzionario sia stato inventato con il lavoro di squadra. Se sei quel raro ingegnere che è inventore e artista insieme, voglio darti un consiglio che forse troverai difficile da accettare. Il consiglio è: lavora da solo. È così che ti troverai nella condizione ideale per progettare oggetti o dispositivi rivoluzionari. Non in gruppo. Non in team.“
(Stephen Wozniak)
“In molti campi, soltanto quando sei da solo puoi esercitarti con rigorosa applicazione, quello che Anders Ericsson chiama “deliberate practice” e che permette di raggiungere l’eccellenza. Chi si esercita in solitudine, riesce a individuare quali sono i limiti che può superare, si impegna a migliorare la prestazione, verifica i progressi e interviene di conseguenza. Le sedute di allenamento al di sotto di questo standard non sono soltanto meno utili ma addirittura controproducenti. Il deliberate practice si svolge al meglio in solitudine per diverse ragioni: richiede concentrazione profonda, e gli altri possono essere fonte di distrazione; richiede anche una motivazione profonda, che spesso ha un’origine interiore; ma significa soprattutto lavorare sugli aspetti che risultano più ostici. Soltanto nella solitudine, puoi dedicarti a ciò che è più impegnativo per te. Se vuoi migliorare, quello scatto dev’essere generato da te stesso. Cosa che in una lezione di gruppo, per esempio, capita solo molto raramente.“
(Cain, p. 111)
Il punto di vista che porta avanti Susan Cain non può essere accantonato tanto in fretta. Lei stessa fa presente che esistono forme di collaborazione che risultano efficaci, come ad esempio il brainstorming online.
“Se oppurtunamente gestiti, i gruppi che fanno brainstorming in Rete non solo ottengono risultati migliori rispetto ai singoli individui, come dimostrano le ricerche, ma migliorano la performance al crescere della dimensione del gruppo. Lo stesso dicasi per la ricerca accademica: i docenti che collaborano via Internet, da luoghi fisici diversi, tendono a produrre ricerca di più alto livello rispetto a chi lavora da solo o collabora faccia a faccia.
Tuttavia, la potenza di queste collaborazioni ci ha impressionato al punto da indurci a sopravvalutare tutti i lavori di gruppo a scapito della riflessione individuale. Non ci accorgiamo che partecipare a un gruppo di lavoro online è a sua volta una forma di solitudine e diamo invece per scontato che il successo delle collaborazioni virtuali si trasferirà identico anche in quelle faccia a faccia.“
(Cain, pp. 120-121)
Le conclusioni di Susan Cain non sono in realtà tanto radicali, anzi. Ammette l’importanza di educare alla collaborazione, soprattutto in ambito scolastico. La sua richiesta è semplicemente di mantenere una certa varietà.
“La ricerca mostra che le squadre più efficaci, ivi comprese molte strutture del governo, sono composte da un sano mix di introversi ed estroversi. Le nostre scuole dovrebbero insegnare ai bambini le competenze per lavorare con gli altri – l’apprendimento collaborativo può essere utile se praticato nella maniera corretta e con moderazione – ma anche assicurare tempo e addestramento per l’indispensabile studio in solitudine.“
(Cain, p. 126)
In conclusione, proporre giochi da tavolo cooperativi sembra essere l’opzione migliore nell’ambito della scuola dell’infanzia e della scuola elementare, partendo da attività a coppie eterogenee stabilite dal docente. Prevedere forme di gioco solitario invece può essere importante per allenare lo studio in solitudine. Dato che a scuola bisogna insegnare anche a gestire la competizione, adottare giochi a squadre, senza dar peso alla vittoria e alla sconfitta, può essere un’opzione valida (come introduzione graduale ai giochi competitivi). Bisogna tuttavia assolutamente assicurarsi che gli allievi mantengano una mentalità di crescita e uno spirito di collaborazione anche durante i giochi competitivi, fondamentali per un apprendimento più efficace.
“Il vero vincitore non è colui che vince sempre, ma colui che perde e continua ad avere il coraggio di mettersi in gioco cercando di imparare dai propri errori.”
Bibliografia e consigli di lettura
- John Hattie, Visible Learning for Teachers. Maximizing Impact on Learning, Routledge, 2012.
- Angelica Moè, Il piacere di imparare e di insegnare. Pensieri, ambienti e persone motivanti, Mondadori, 2019.
- Roberto Trinchero, Costruire e certificare competenze con il curricolo verticale nel primo ciclo, Rizzoli, 2017.
- David W. Johnson, Roger T. Johnson e Edythe J. Hobulec, Apprendimento cooperativo in classe. Migliorare il clima emotivo e il rendimento, Erickson, 2016.
- Susan Cain, Quiet. Il potere degli introversi in un mondo che non sa smettere di parlare, Bompiani, 2016.
- Il Piano di studio della scuola dell’obbligo ticinese, 2015 e 2022.
- Carol Dweck, Teorie del sé. Intelligenza, motivazione, personalità e sviluppo, Erickson, 2000.
- Carol Dweck, Mindset. Cambiare forma mentis per raggiungere il successo, FrancoAngeli, 2023.
- Anders Ericsson e Robert Pool, Peak. Secrets from the New Science of Expertise, Eamon Dolan, 2016.